mercoledì, gennaio 30, 2008

Cloe



Appari e scompari,
l'abito di seta cela il tuo velluto.
Sembra già averti
il solo annusarti,
scoprire il tuo odore,
spia della tua prossimità.

Carezzare velluto e
tenera seta

sabato, gennaio 19, 2008

Odessa



Avvertire il tuo sapore,
la tua presenza.

sapere che ci sei,
ancora prima di disegnarti

martedì, gennaio 15, 2008

Tutte le sante volte


L’insegna luminosa che annuncia l’offerta speciale dei Jeans di Armani, specchio per allodole di ricchi grassocci turisti, sembra il sole naturale, e al tempo stesso dolcemente artificiale, dello scorrere frenetico della stazione.
Non riesce mai a sentirsi normale in una grande stazione. L’effetto che ha è sempre quello di far parte di qualche film, o di uno spot, o di un servizio della televisione sullo sciopero dei treni. Il fatto è che si sente pieno e non pieno, solo e in compagnia, padrone o schiavo di se stesso. Il fatto è che si sente nessuno già a casa propria, figuriamoci in una stazione da 18 binari e rotti.

Cerca il diretto con lo sguardo, quello delle otto meno cinque, dalla vetrata al secondo piano del Mc, dove siede a mangiare la sua cena prefabbricata non si sa dove, impacchettata chissà da chi e distribuita tramite non si sa cosa.
Il neon è davvero quello che rende un Mc Mc. Da pastarito ci stanno le luci gialle, un po’ soffuse. Al Mc, invece, ci stanno i neon, bianchi, asfissianti come quelli degli ospedali, e sempre lo stesso ragazzotto smilzo con i brufoli e il grembiule e il cappello che svuota i vassoi per portarseli via. E questo è il bello dei Mc, che quel ragazzotto ci sarà sempre, in qualsiasi Mc, di qualsiasi città, e che non ti rivolgerà mai la parola, a ricordarti che se stai sotto un neon - mica sotto la luce gialla e accogliente del pastarito - alle sette di sera, al tavolo da quattro, seduto dalla parte della finestra a guardare fuori, è perché sei solo. E questo è quanto.

Scarta il Mc chicken dal Mc pacco, sul Mc vassoio dove una slavina di Mc patatine giace ora sulla carta per alimenti sommergendo la reclame dell’ultimo Happy Meal a colori vivaci, baluardo del colesterolo per piccoli obesi che crescono. Lo addenta, spalmando sul palato la semiplastica di una semivita di un semilavoratore a contratto atipico, che mastica il mondo per le prime volte e lo scopre di semicarne, all’inizio buona e poi sempre più cancerogena e indigesta.

A vedere i treni che partono e i treni che invece aspettano viaggiatori al di là di linee gialle piene di cicche e fazzoletti e incarti di Mc panini fritti, gli viene da ricordare sempre la stessa scena. Quella del pomeriggio in cui rientrò a casa prima e trovò suo padre che scopava con una che non assomigliava per niente a sua madre, né nell’espressione, né nel modo lurido che aveva di aprire le cosce ed accogliervi un cazzo non di sua proprietà. Sua mamma, di certo, non avrebbe mai aperto le cosce a quel modo.

Tutte le sante volte, ricorda come si mise a guardare senza saper fare nulla, senza poter dire nulla, finché i gemiti non si trasformarono nell’urlo incredulo e colpevole della troia colta in frangranza, che terminò lo spettacolino porno fatto in casa in un fuggi fuggi di pudichi riavvolgimenti di lenzuola sfatte.

Tutte le sante volte, mentre guarda i treni uscire e entrare in stazione, ricorda i cazzotti e gli strepiti e quella corsa di donna di natiche flosce verso la porta e suo padre ora sotto di lui a cercare di difendersi, ma mai attaccare, dalla ferocia di un figlio adolescente che si vendica non per quello che ha impresso negli occhi, ma già per le sue conseguenze.

Non c’ha mai nemmeno provato a parlare con quel ragazzotto secco dall’aria malaticcia. Ma crede che prima o poi lo inviterà a prendere qualche cosa altrove, magari aspettando al tavolino che abbia finito il turno e compaia dalla porta dei dipendenti rinnovato e senza grembiule. Piacevole in lui penetra il calore vacuo di scoprire se persino i dipendenti del Mc siano fabbricati in semiplastica.

giovedì, gennaio 10, 2008

Mosche

Ci sono mosche per terra, morte.
Da qui non vedo, alla fine del corridoio, la stanza in cui entrano e escono i tipi in camice bianco. Vedo solo il loro ciabattare, a volte lento e svogliato, a volte celere e urgente.
Da qui vedo anche il mio riflesso alla finestra di fronte la mia panca, proprio al posto del gran carro.
Nella mano libera giro e rigiro il foglio del pronto soccorso, ora semideserto, e nella mano, che invece tengo alla fronte, reggo una garza intrisa del mio sangue. Non mi ricordo dove me lo sia fatto, ma so che al di là del via vai di camici bianchi e verdi, c'è Marco che forse dorme o forse è la causa di quella partita di ping pong umano.

Ci sono mosche per terra, morte.
Perchè nessuno le seppellisce? Il volo delle mosche è un volo improbabile, ronzio atono di forme sempre uguali, girare compulsivo frenetico e inutile. Sono proprio stupide le mosche, volano per un tempo infinito attorno ad idoli di aria arrangiando una paradossale danza scattosa e scoordinata. Stupide mosche, potrebbero volare verso le stelle o il cibo e invece rimangono in un ospedale a corteggiare i neon, sbattendoci contro, TUM, TUM, TUM, finchè non s'intontiscono e l'assenza di cibo non le mortifichi in un'agonia solitaria, di alette sbattute per terra che precede la morte, per poi essere sospinte dallo spostamento d'aria di un portantino o di un infermiere corpulento sotto alle panche scomode per diventare una macchia nera di chitina in attesa di una una scopa.

Mi guardo la garza. E' satura di sangue, rimango a fissarla inebetito, per un pò, tentando di dire alla testa di non girare come fanno le stupide mosche idiote, o come io e Marco nella sua punto a corteggiare le altre punto con le tette, insegeguendo neon a 150 all'ora.

Poi, al di là della garza, bianchi, sfocati, solidi sul linoleum ci sono due zoccoli, di quelli tutti traforati. Alzo gli occhi al viso del loro padrone. So che Marco non ce l'ha fatta.